Colpiscono fin da subito di Nulla caduco, opera di poesia prima di Marco Incardona, l’ampiezza e lo spessore della ricerca poetica, esistenziale e storica confluite in queste pagine da anni di lavoro e sedimentazioni. In quello che sembrerebbe essere quasi un “Canzoniere” del proprio percorso e della propria formazione artistica, letteraria, filosofica.
Nulla caduco è uno di quei libri che si potrebbero tenere sullo scaffale per mesi – anni – e riaprire ogni volta in un punto diverso per scoprire ogni volta un nuovo inizio, un gioco di senso nascosto, una bellezza non accarezzata. Una sfida diversa ai meccanismi di assoggettamento e codificazione linguistica che “violentano” il mondo e l’essere, producendo il “reale”.
Ovvero lo spazio del pensabile, quindi dell’agibile, secondo i dettami del “senso comune”, socialmente costruito.
Quello di Marco è un costante tentativo di ribaltare la dialettica del vivere quotidiano, trovando nella poesia uno strumento di resistenza concreto. Un ariete per abbattere le mura dei castelli di menzogne e superficialità dietro ai quali si è barricato l’uomo moderno, andando alla ricerca di parole adeguate ad esprimere ciò che la concettualizzazione classica è incapace di significare
Sollecito l’infinito
In cerca di quiete.
Fabbrico ad arte
Denti avvelenati
Che semino
Nei campi ben arati
Dell’ingiustizia.
Guardami come l’ombra
Che spalanca le fauci
Per inghiottire, intero,
L’incubo del mondo.
Incardona sa bene che il nostro linguaggio, quindi “i limiti del nostro mondo” parafrasando Wittgenstein, è inevitabilmente definito da meccanismi di potere che mirano a tracciarne i confini e governarne le dinamiche. E ciò che detta legge oggi nel reame del pensiero non è di certo qualcosa di affine ad una piena ed incondizionata emancipazione dell’essere umano.
E tuttavia quella di Marco sembra essere un’instancabile poetica da Ulisse di Omero e di Dante. Eterna fuga dai canti delle sirene del consumismo mediatico, indomita ricerca di quel “legno” e di quella “compagna picciola” dai quali non sentirsi abbandonati nel “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole. Che solo lo spirito poetico può trasformare in “ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore;”
Oggi sono di moda
Potentissime sirene
Devote adescatrici
Dell’oceano dei consumi.
[…]
Pare difficile
Non rispondere al richiamo
Che promette tutto
Senza lasciare traccia,
Quando invece si è devoti
Ad un amore
Che non si lascia usare,
Che non si fa consumare,
[…] […]
A picco,
Come un veliero
Sconfitto dalla bufera
E destinato a futuri
Raid subacquei.
Enumero,
Negli eterni istanti
Della caduta,
I giorni sussiegosi
Del tempo mal speso.
Una dialettica solo apparentemente nichilista, quella di un “nulla” che azzera le retoriche posticce e metafisiche. Colpite al cuore dei loro meccanismi di dominio grazie al sabotaggio poetico costante dei presupposti ontologici su cui si basano. Di cui questa “nullificazione originaria” – in una sorta di poetica della “dialettica negativa” di Adorno – è passaggio (de)costitutivo fondamentale a squarciare il “Velo di Maya” del mondo. E a svelare le quinte di un “teatro dell’assurdo” esistenziale, di cui solo lo spazio scenico della poesia sembra poter provare a ricucire la trama
Nella miseria più nera della mente,
Scaglio asce di guerra in rima sparsa,
In attesa di un vento macabro
Di zolfo
Che forzi il piano mellifluo
Dello sguardo.
[…]
Non ci sono porte di seta
Né troni nell’alto dei cieli.
Solo questa terra,
Terribile compagna
Che spezza le mie vertebre.
Ma il nulla caduco necessario ad aprire questo spazio di indagine critica – e potenzialmente catartica – della realtà, diviene allo stesso tempo consapevolezza che nulla è caduco. Nulla è destinato a perire o perdersi inesorabilmente, quando il nulla non è più orizzonte del divenire della vita e dell’essere. Bensì termine di confronto costante sul quale si costruisce la capacità poetica, di dare un nome ed un senso a quegli aspetti della vita che sembrano rimanere eterni (un omaggio questo, alla filosofia di Emanuele Severino).
Pur nell’eterno ritorno del diverso di cui questo libro sembra regalare traccia, nel suo non avere una struttura lineare o concettuale vera e propria.
Tornando su stagioni spazio-temporali che aprono e chiudono continuamente le “matrioske” esistenziali dell’autore.
Ed infatti la poesia di Marco sa raggiungere degli spessori e delle levature squisite, di cui il lettore potrà godere in vari punti e passaggi del libro. Che sembrano trovare anche una via di riqualificazione post-moderna di quella cultura classica della quale Marco Incardona è probabilmente debitore, oltre che estimatore
Come lacrime di angeli iranici,
Che zampillano da antichi scrigni
In alabastro,
Le scintille scaturite dal tuo sguardo,
Si riverberano sul mio passo,
Sino a farlo arenare.
Basterebbero sirene zelanti
A far svanire l’incantesimo
Con il potere del loro canto.
Basterebbe soltanto il sibilo
Della tua voce in lontananza.
Il poeta originario di Vittoria in Sicilia – già curatore per Ensemble dell’antologia di “affluenti – nuova poesia fiorentina” – ha traversato lungo varie rotte la vicenda sociale, politica e culturale dell’Italia e dell’Europa (non solo, vista la sua laurea in Storia contemporanea con una tesi sulla politica messicana post-rivoluzionaria). Forse la sua aspirazione affinché “nulla sia caduco” di quell’orizzonte di senso che rimane dopo la disintegrazione linguistica fatta dalla poesia, è anche consapevolezza dei limiti e delle responsabilità avute dalle controculture e dalle sinistre, circa la possibilità di offrire una via d’uscita dai meccanismi di dominio e decadenza dove come specie umana siamo rimasti intrappolati
Che la scienza e la tecnica
Con cui l’uomo si è impossessato
Impunemente del mondo,
[…]
M’illudano, anche solo per un istante,
Che un semiconscio e radicale rifiuto
Etico e sociale stia alla base
Del mio fallimento.
Ed anzi l’importanza attribuita al linguaggio poetico nell’essere heideggeriano, sembra diventare in Incardona una possibile leva di Archimede per ribaltare il campo concettuale. Invertendo il rapporto fra soggetto e predicato che la sovversione cartesiana ha stravolto nell’Occidente.
Un nuovo “essere soggetto” che oltre a soffiare come scirocco nelle vele di quel “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole del mondo istituito, non disegna ed anzi trova la bussola anche di un rinnovato piacere e gusto estetico, per niente retorico né speculativo. Bensì emancipatorio dal culto del selfie e dai nichilismi più o meno latenti alle dialettiche antagoniste
Il poeta avanza ogni volta,
Anche in un’epoca colma
Di desideri strozzati sul nascere
Come questa.
[…]
Tra le mani, come sempre,
Ha un cesto gonfio di betulle,
[…]
Quando il sogno antico
Che di nuovo si rinnova,
Sarà ucciso ancora una volta,
[…]
Non può fare del male il poeta,
La sua lingua lo conduce
Ove tutto e niente si danno la mano.
Scia di luce improvvisa,
Fragore che spesso uccide.
Tutti elementi che contribuiscono a fare di Nulla caduco un libro importante. E a dare a Marco Incardona uno spazio di rilievo nello scenario della letteratura italiana attuale, come nel dibattito poetico che si apre in questo inizio di terzo millennio.
Fra i fiumi carsici di Marco, sotto l’apparente nonsense dell’erosione del paesaggio linguistico e concettuale di superficie, scorre in realtà una sorgente ben più profonda e autentica, destinata a emergere dalle risorgive di un essere umano liberato. Capace di scavare, solcandoli, i mondi da abitare in comune
La parola deve essere affilata
In questi tempi di crisi amara,
[…]
Prepararsi alla guerra anche quando
Non viene dichiarata da nessuno,
E’ più importante di una vittoria di Pirro.
Perché la poesia muore
Se non uccide
L’ipocrisia.