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Oggi primo novembre Reti Dedalus, la rivista on line del Sindacato Nazionale Scrittori, ha pubblicato questo mio pezzo.

Prende spunto da una recensione de “Il porcospino in pegaso” apparsa sulla stessa pagina on line, lo scorso 2 giugno.

Ho scelto di rispondere per affrontare un discorso più ampio, sui punti di riferimento che hanno influenzato negli ultimi anni (più o meno consapevolmente) certa nostra critica e letteratura.

 

 

La critica è un mostro strano; senz’altro qualcosa di almeno un po’ compromettente se pensate che porta l’ambiguità già nel nome. Alzi la mano chi – nell’ingenua purezza della sua adolescenza – non ha pensato neanche per un attimo di essere rimasto fregato da un qualche dio ballerino, quando ha scoperto che la critica non è soltanto quella che si fa al compagno di banco per fargli venire i complessi sul taglio di capelli, proprio il giorno in cui deve chiedere di uscire al nostro sogno erotico preferito.
Perché da fanciulli – si sa – si è poco inclini ai compromessi, e spesso ci si domanda quanto di quello a cui viene formata, quella che poi impareremo a chiamare “la nostra soggettività”, ci servirà davvero; e quanto invece sarà più un compromesso inevitabile alla sopravvivenza nel mondo degli adulti.

“Ci si lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere” diceva Michel Foucault, lui che riteneva nessun soggetto essere formato come libero. E allora sì, in un paese la cui tradizione poetica è segnata da avanguardismi ed élitismi – tanto nella sua versione più classica, quanto a volte in quella critica – parte di un “occidente” dominato da tecnicismi, antropocentrismi e immaginari colonizzati (che in una sua vera omogeneità, forse esiste solo proprio in quel dominio), verrebbe voglia che anche la critica letteraria non scendesse mai a patti con quel dio ballerino.
Perché ciò che caratterizza quella formazione di soggettività, è il suo scollegamento da quello che c’è di più originario nel fare poesia; e cioè il ritmo ontologico del vivere, e le sue potenzialmente libere e indipendenti produzioni di senso/nonsenso.
E conseguentemente, la capacità di appropriarsi delle parole e ribaltare i termini dei discorsi, in quelli che Foucault definiva “giochi di verità”.

Il sapere del resto, sostiene ancora Foucault, è in ogni epoca in intimo rapporto col potere.

E tuttavia quell’anti-umanesimo che oggi va per la maggiore, pone sempre più dei problemi riguardo lo stesso soggetto umano, e conseguentemente circa le produzioni di verità di un possibile approccio critico.
Li pone forse perché non dà risposte adeguate sull’origine del soggetto stesso.
Penso infatti che quello stesso anti-umanesimo – per l’interpretazione che ne viene data in certi ambienti o per suoi stessi limiti di fondo – mantenga più o meno involontariamente la propria prospettiva internamente e non esternamente, a quella “religione cartesiana” tanto osteggiata; passaggio costitutivo della soggettivazione e dell’assoggettamento da parte del potere (o meglio si dovrebbe dire, dei poteri diffusi).
E d’altra parte sarebbe già l’interpretazione foucaultiana, a non permettere di fatto un punto di vista potenzialmente esterno rispetto a quella religione cartesiana.
Dove anche la libera autocostruzione del soggetto, sembra sempre avvenire a posteriori rispetto all’accettazione di norme e paradigmi propri dell’assoggettamento, conservando un punto di vista interno anche quando egli ricerca un’analisi dal basso di quella che chiama la microfisica del potere; limitando perciò la comprensione strutturata di quei meccanismi di dominio.
Similmente alla contraddizione nella quale sembra cadere la soggettualità di Deleuze, nel contrapporsi alla soggettività cartesiana piuttosto che ricercarne una diversa più originaria; e finendo magari col riprodurla a parti invertite, quando non ad averne bisogno per sussistere.
Essi partono da una giusta critica a un soggettivismo – come riconosceva ad esempio lo stesso Foucault – di origine teologica, senza riuscire ad andare potenzialmente pienamente oltre.

Non è infatti la storicità in sé del soggetto ad essere messa in discussione, quanto appunto la sua genealogia; che pone a mio parere le proprie basi nella liberazione dell’istintualità, del subconscio e dell’irrazionale, e ad essi fa continuamente ritorno nel rinnovarsi ed evolversi, in quel ritmo ontologico del vivere.
Se accettiamo questo punto di vista, ne consegue che la soggettività è prima di tutto percettiva, e che l’approccio anti-umanista non è esso stesso in grado di coglierne a pieno la storicità; se non da un punto di vista e in una prospettiva essi stessi dominanti/dominati, per quanto “criticamente dominanti/dominati”.
L’esclusione di inconscio e irrazionale dal campo della soggettività, può finire col deresponsabilizzarli e limitarli, accettando essa stessa l’idea di una frattura fra questi e la coscienza.
Non permettendone fino in fondo una presa potenzialmente libera, e relegando di fatto la percezione (individuale e sociale), quindi le possibilità di manifestazione della vita.

Queste contraddizioni si manifestano a mio avviso, sia in certi settori della “controcultura” e dell’underground sia, come rovescio della stessa medaglia, in certa critica di matrice accademica, che ha acquisito i vari Foucault, Deleuze, Bene, Heiddegger, come linee guida fondamentali.
E così accade che – volenti o nolenti – aspetti come il livello tecnico o l’elaborazione formale, possano essere ancora oggi discriminanti fondamentali per l’apprezzamento, o anche solo la reale attenzione non mistificata, di certa nostra critica nei confronti di un’opera poetica; fosse essa anche un’opera caratterizzata da un approccio – appunto – “critico”.
E può accadere che consapevoli volontà di evitare qualsivoglia tecnicismo, anche partendo da libere scelte tecniche essenziali, che evolvano progressivamente verso forme più complesse (come vorrebbe ogni metodo induttivo), vengano considerate ingenue o banali.
Come se nel bel mezzo del tecnicismo occidentale, fare “tabula rasa” dei saperi tecnici non sia un primo passo fondamentale verso la ricerca di una possibile originalità stilistica.
Come se quel metodo induttivo, non fosse l’unico coerentemente compatibile con una poetica sociale dal basso, che punti a interpretare e dare voce ai soggetti più emarginati ed oppressi.
E come se qualsivoglia centralità dell’aspetto tecnico – per quanto autocostruita e critica – non sarebbe costretta a venire a compromessi con i paradigmi dominanti, e non corresse il rischio continuo di “auto-istituzionalizzarsi”.
Senza per questo fare alcun facile nichilismo spicciolo, sottovalutando l’importanza che la tecnica o il lavoro di elaborazione formale hanno, nella riuscita complessiva di un’opera di poesia.

Ma anche paradigmi come l’immaginario e l’uomo, il mito, nonché un certo bisogno di nuova spiritualità/religiosità, stanno riemergendo in direzione per certi versi anche positiva, ma per altri problematica; rischiando di riprodurre – come detto – capovolgendoli, se non addirittura di riacquisire, molti dei paradigmi originariamente osteggiati.
E questo credo, proprio per l’eccessiva ondivaghità e ineffabilità con le quali l’anti-umanesimo degli ultimi decenni, ha affrontato il tema dell’irrazionale e dell’inconscio, al di fuori del campo di soggettività.
Importante perciò in tal senso potrebbe essere dare una rispolverata critica a lavori come quelli di Jung sul subconscio, di Feuerbach sull’essere e di Chomsky sulla linguistica.

Penso dunque che abbiamo bisogno di nuove e diverse soggettività possibili.
La poesia in questo può giocare un ruolo importante, a partire da una liberazione istintuale/percettiva che evolva verso una nuova e più consapevole presa di (auto)coscienza, individuale e sociale. Che in quel ritmo ontologico del vivere, continuamente torni e si rinnovi.
E può giocare un ruolo importante, perché da sempre ciò che è una valida “unità di misura” di un’opera poetica, è la sua capacità di rompere con i linguaggi dominanti del proprio presente.

Abbiamo bisogno di nuove voci, perché in quest’ottica, solo voci autentiche possono smascherare sensi e significati dominanti, dando prova di punti di vista e giochi di verità (quindi di vissuti) concretamente al di fuori dell’assoggettamento, fosse anche necessario svilupparli a posteriori rispetto alle sedimentazioni.
E posto che se c’è una cosa su cui Foucault aveva pienamente ragione, è che il potere è coestensivo al corpo sociale. E che quindi questa fuoriuscita è attualmente su un piano potenziale (il che può rendere quello stesso momento cartesiano, come un passaggio a suo modo necessario). Perciò inevitabilmente ogni opera letteraria risente, “nel bene e nel male”, del proprio tempo.
E in tempi di crisi del modernismo e del post-modernismo, forse abbiamo bisogno anche di evitare facili avanguardismi, e non dimenticare che non necessariamente tutto ciò che è “vecchio” per forza di cose è da buttare, ma può essere per così dire recuperato pur nell’ambito di ricerca di un’originalità.

In conclusione vengono alla mente le parole di Jack Hirschman, poeta vicino e al tempo stesso critico della beat generation; amico e collaboratore di Ferlinghetti, oltre che fondatore del progetto delle Revolutionary Poets Brigade:

 

Go singing whirling into the glory
of being ecstatically simple.
Write the poem.

Leonardo Bonetti e il libro chiuso. Già sull’attacco la stonatura sembrerebbe evidente, a meno che non si tratti della prima stesura di un corvesco coccodrillo. E invece il rock di cui Leonardo stesso è da anni voce e interprete, sa bene che proprio da una nota stonata possono nascere pezzi dei più vibranti.

Uno scrittore e l’assenza del suo stesso pane quotidiano. Invece no. Perché in Bonetti l’orizzonte del libro chiuso non si manifesta come morte del libro – quanto mai convalescente in tempi come questi – bensì, si potrebbe dire, come suo “contrario”. E in questo approccio l’autore ricorda d’entrata tutto un certo anti-umanesimo degli anni ’70-’80, quello dei vari Deleuze e Foucault, che affonda le sue radici nell’ontologismo heiddeggeriano e ovviamente nella filosofia di Friedrich Nietzsche.Image

E in alcuni punti il libro chiuso di Bonetti, sembra esplicarsi proprio come paradigma che rende de facto impossibile qualsiasi pretesa antropocentrica di dominio del linguaggio e della conoscenza, divenendo così fortezza inespugnabile dove rifugiarsi da quella volontà di sapere che fa rima con volontà di potere. Libro chiuso come tautologicamente anarchico. Ago della bilancia sulla quale si alternano, rincorrendosi, i pesi delle rivoluzioni.

Ma in Leonardo, che in quella scuola di pensiero di cui sopra affonda le radici della propria parabola artistica, si manifesta anche una volontà di portare l’insegnamento dei maestri oltre il punto in cui loro stessi hanno saputo condurre l’allievo. E infatti in “A libro chiuso”, sono pressoché assenti tutte quelle stereotipizzazioni e banalizzazioni che del pensiero di quegli anni sono state fatte. Permettendo così di addomesticarlo e renderlo un abito troppo stretto, a chi vuol mettersi nei panni della vita e della libertà.

C’è in Bonetti qualcosa di profondamente esistenziale, il tormento squisitamente poetico – e per questo inesauribile – del mistero dell’essere che crea sé stesso e della sua condivisione. Un mistero che, come lo stesso autore restituirà nel paragrafo dedicato al tema del significato, fonda la propria legittimità solo sulla continua e autentica ricerca del suo disvelamento. C’è qualcosa di Sartriano quasi, quando il niente del libro chiuso diventa momento di incontro e presupposto fondamentale di quell’essere e del suo mistero, e di qualsiasi discorso si possa tentare su di esso.

Non c’è traccia tuttavia di nichilismo. Ed anzi il fallimento endemico della rivelazione ermeneutica, apre alla possibilità di una nuova spiritualità e religiosità, le quali attraverso la “liturgia” del libro chiuso si preservano però da tentazioni di verticismo teologico. Tessendosi su un campo pienamente orizzontale, tutto teso all’incontro con l’altro e con le possibilità di interpretazione (e quindi di vissuto) potenzialmente infinite, che proprio quel fallimento paradossalmente apre. Possibilità che vanificano nuovamente qualsiasi tentativo di dominio da parte dell’autore sulla propria opera, e con esso qualsiasi principio di gerarchia possa eventualmente scaturire dall’opera letteraria comunemente intesa.

Divenendo forse in questo senso, anche una necessità non dichiarata – e magari più autentica – di un nuovo e diverso essere umano.

Un libro che riflette sul senso e sui limiti dell’opera letteraria, e che proprio a partire dal discernimento di questi limiti sa affidarle un potenziale e una freschezza del tutto inusitati, aprendosi anche a temi di forte attualità sociale ed esistenziale. Un libro importante che prova a consegnarci qualche chiave, per aprire le porte che ci sono rimase chiuse dentro e fuori, sotto la luna calante del post-moderno.

E che magari, come ogni libro che vuole esplorare strade non ancora battute, deve solo fare attenzione a non dimenticare – per dirla in termini congeniali all’autore stesso – che per ogni nuovo cammino che intraprendiamo ce ne sono mille rimasti chiusi, in un rapporto esageratamente sproporzionato. Dove sul terreno dell’incontro con le orme di altri viandanti lungo il dirupo della saggezza, questo libro – o meglio questo “nonlibro” – può dimostrare di essere un’opera che resterà.

 

Sabato prossimo 31 marzo ci sta la presentazione dell’ultimo lavoro di Leonardo Bonetti, “A libro chiuso”.
Un libro che riflette sul libro.
O meglio, sul “nonlibro”, come spazio a partire dal quale si aprono pagine di possibilità potenzialmente infinite.
Una riflessione sul senso e i limiti dell’opera letteraria, che a partire da essa si apre a questioni esistenziali e sociali di piena attualità.
Ci sarà anche un mio intervento, o meglio, un nonintervento.